Arrivavo dopo almeno una settimana.
Stanco; per il viaggio, per lo zaino, per il sole di quei giorni, per la la vita fatta, per il poco mangiare.
Salivo le scale e facendolo mi vedevo salirle tutte le altre centinaia di volte.
Arrivato in cima, un angolo, una altro, un altro angolo, e finalmente dopo quel lungo labirinto, non solo di scale, ma di giorni, di pensieri, di immagini, di idee confuse e non realizzate, in fondo al corridoio davanti alla pora aperta, dopo cui non c'erano altre porte ma solo una piccola finestra da cui Zeytin usciva di nascosto quando ci riusciva, orgogliosa e timorosa, c'erano le sue braccia.
A volte non diceva nemmeno una parola; mi chiamava con le mani, con le braccia, con lo sguardo, dicendomi di correre ad abbracciarla; rimaneva sulla porta ma sembrava non potesse aspettare ancora un secondo per poterci abbracciare.
Quel gesto, sapere che dopo quell' angolo ci sarebbe stato quel chiamare di mani e sguardo, toglievano ogni stanchezza.
Ogni sete ed ogni logorio se ne andavano prima ancora che arrivassimo a toccarci.
Non lo so fare, ci provo e porprio non lo so fare; descriverla mentre sulla porta mi dice con le braccia di correre li da lei e' troppo difficile.
Ci stringevamo come chi vinalmente stanco trova un appoggio, e mi teneva forte dicendomi che le ero ancato tanto; ma le parole non servivano perche' arano i gesti a spiegarlo. Quell' abbraccio era di chi sente quasi che lo spazio non possa bastarle per potersi abbracciare dipiu', come se quell'abbraccio non potesse consumare tutto il suo bisogno arretrato di sentirsi tutti e due li; faceva venir voglia di essere piu' grandi per poterle dare dipiu' da abbracciare.
Ora tutto questo lo posso solo immaginare. Non chiederei altro ma ora posso solo pensarlo. Non so se potra' tornare. Ma anche se tornasse resta difficile il pensiero che sia una cosa passata.
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