lunedì 12 ottobre 2009

Grazie a Carlo Emilio Gadda.

«Camerieri neri nei “restaurants”, avevano il frac, per quanto pieno di padelle: e il piastrone d’amido, con cravatta posticcia. […]
Si, si erano consideratissimi, i fracs. Signori seri, nei “restaurants” delle stazioni, e da prender sul serio, ordinavano loro con perfetta serietà “un ossobuco con risotto”. Ed essi, con cenni premurosi, annuivano. E ciò nel pieno possesso delle rispettive facoltà mentali. Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande considerazione gli un gli altri. Gli attavolati si sentivano sodali nella eletta situazione delle poppe, nella usucapzione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro deretano, nella dignità del comando gli uni si compiacevano della presenza degli altri desiderata platea e a nessuno veni fatto di pensare, sogguardando il vicino “quanto è fesso!”. Dietro l’Hymalaia dei formaggi, dei finocchi, il guardialsala notificava le partenze: “¡Para Corrientes y Reconquista! ¡Sale a las diez el rápido de Paraná! ¡Tercero andén!”.
Per lo più, il coltello delle frutta non tagliava. Non riuscivano a sbucciar la mela. O la mela gli schizzava via dal piatto come sasso di fionda, a rotolare fra scarpe lontanissime. Allora, con voce e dignità risentita, era quando dicevano: “Cameriere! ma questo coltello non taglia!”. Tra i cigli, improvvisa, una nuvola imperatoria. E il cameriere accorreva trafelato con altri ossibuchi ed esternando tutta la sua costernazione, la sua piena partecipazione umiliava sommessa istanza appiè il coruccio delle Loro Signorie: (in un tono più che sedativo): “provi questo, signor Cavaliere!”: ed era già trasvolato. Il quale “questo” tagliava ancora meno di quel di prima. Oh, rabbia! mentre tutti, invece, seguitavano a masticare, a bofonchiare, addosso agli ossi scarnificati, a intingolarsi la lingua, i baffi. Con un sorriso appena, oh, un’ombra, una prurigine d’ironia, la coppia estreme ed elegantissima, lui, lei, lontan lontano, avevan l’aria di seguitar a percepire quella mela, finalmente immobile nel mezzo la corsia: lustra, e verde come l’avesse pitturata il De Chirico. Nella quale, bestemmiando sottovoce, alla bolognese, ci intoppavano ogni volta le successive ondate dei fracs-ossubuchi, per altro con lesti calci in discesa, e quasi in rimando, l’uno all’altro: alla Meazza, alla Boffi. […]
Tutti, tutti: e più che mai quei signori attavolati: tutti erano consideratissimi! À nessuno, mai, era mai venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri, putacaso dei bambini di tre anni.
Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie incarnite, e le verruche, i nei, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitari: neppure essi, no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio.
E quella era la vita.
Fumavano. Subito dopo la mela. Apprestandosi a scaricare il fascino che da lunga pezza oramai, cioè sin dall’epoca dell’ossobuco, si era andato a mano a mano accumulando nella di loro persona – ( come l’elettrico nelle macchine a strofinio) – ecco, ecco, tutti eran certi che un loro impreveduto decreto avrebbe lasciato scoccare sicuramente la importantissima scintilla, folgore e sparo di Signoria su adeguato spinterogeno ambientale, di forchette in travaso. Cascate di posate titinnanti! Di cucchiaini!
Ed erano appunto in procinto di addivenire a quell’atto imprevisto, e però curiosissimo, ch’era così instantemente evocato dalla tensione delle circostanze.
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d’argento: poi dal portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d’oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, richiuso nel frattempo dall’altra mano, con un tatràc; la mettevano ai labbri; e allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor fronte, onnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. Passati alla cerimonia dei fiammiferi, ne rinvenivano finalmente dopo aver cercato in due o tre tasche, una bustina a matrice: ma, apertala, si constatava che n’erano già stati tutti spiccati, per il che con dispitto, la bustina veniva immantinenti estromessa dai confini dell’Io. E derelitta, ecco giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stanata ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo ubiqua immagine del Fisco Uno e Trino, fino a denudare in quella pettinetta miracolosa la Urmutter di tutti gli spiritelli con capocchia. Ne spiccavano una unità, strofinavano, accendevano; spianando a serenità nuova la fronte, già così sopraccaricata di pensiero: (ma pensiero fessissimo, riguardante, per lo più, articoli di bigiutteria in celluloide). Riponevano la non più necessaria cartina in una qualche altra tasca: quale? Oh! Se ne scordano all’atto stesso per aver motivo di rinnovare ( in occasione d’una contigua sigaretta) la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli “altri tavoli”, aspiravano la prima boccata di quel fumo d’eccezione, di Xanthia, o di Turmac; in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico.
E così rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell’Aida o il Toreador della Carmen.
Così rimanevano a guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori».